giovedì 24 giugno 2010

Coltello.







Noi due ci stiamo assiderando. Nel freddo delle parole di troppo. Dei silenzi. Delle telefonate in cui il nervosismo ti cade addosso fulminandoti. Hai la voce sempre più oscena. Irritabile da far male. Mi ricordo di quando bastavano le promesse a renderci tranquilli. Vedersi, baciarsi, urlare senza sosta una canzone che sa di mare. Gli ospedali in cui, un giorno, firmeremo cartelle cliniche. Gli alberghi di provincia dove ci comportiamo come vecchie dive, con il foulard, gli occhiali da sole, il rossetto rosso, il cerone di Lady Gaga per ridimensionare, sconvolgere i contorni. Le camere da letto costellate di vecchie foto. La tua mano che mi tratteneva, io che dicevo di mollare la presa, non riuscivo a dormire. Il panda specializzato nelle arti marziali, la tua gatta selvatica che faceva le fusa alle finestre. Faceva male salire su quel treno, imbarcarsi nel viaggio a ritroso, riempirsi di altre favole in cui il lieto fine non poteva mancare. Sorretta dal tuo sguardo appena rabbuiato, dalla tua corsa parallela ai binari, dagli addii che terminavano solo quando non c’erano più centesimi da spendere. Erano belle quelle promesse, sembrava di vivere nello zucchero filato, nel miele più denso in cui si affogava e si moriva un po’, piccoli pezzi di cervello del tutto inutili che si sfilacciavano, ma la perfezione ha bisogno si sacrifici, si sa. E quando ci siamo imbottiti di sigarette perché altrimenti non ci si riusciva a sconfiggere l’imbarazzo, la vergogna, la certezza che la nebbia milanese fosse meno fitta di quei discorsi di silenzio. Era bello. Adesso è un altro tipo di silenzio, di quello che vuoi scacciare via con un cerotto, un incubo, un sogno davvero vivido che non ti abbandona per giorni, come l’ansia delle attese, l’inquietudine delle attese, che ti logora dentro, scavandoti, portando alla luce reperti archeologici costali e cardiaci. Non ho mai voluto che tu fossi per me il coltello, ma se proprio vuoi allora uccidimi in fretta.


Ho sempre pensato che le biciclette vecchio stile fossero opere d'arte.

martedì 22 giugno 2010

Miss You P.






Mi manca gridare Show must go on mentre sfrecciamo in direzione del mare, io e te, con le peggiori intenzioni, spaventare i passanti e sconsacrare i luoghi di culto, riempirci di schifezze ipercaloriche al Mc Donald’s dove sei incapace di ordinare una maledetta CocaCola senza far impazzire i camerieri. E mi mancano le tue espressioni bizzarre. Quando allunghi le labbra. Quella faccia da bambino del terzo mondo. O i monologhi su libri, teorie senza alcuna dimostrazione reale, divagazioni pseudofilosofiche che ad un certo punto smetto di ascoltare. Mi manca abbracciarti. Starti vicino. Guardarti negli occhi. Non bisogna aprir bocca, la perfezione è nell’assenza, nel non finito, lo sapeva Michelangelo ai suoi tempi. Sai cosa mi manca ? Quando mi prendi in giro, ed il fascino con cui mi ripeti che sono una camionista. O quando sostieni che abbia il piccolo problema di russare sonoramente. Non c’è niente di più divertente che prenderti in giro mentre cerchi di fare un discorso serio. Quando davanti a quella discoteca fingevi di aver bisogno di una pasticca, ed io ero una povera passante scambiata per pusher. Quell’accento maledetto, le magliette dai colori anomali. Mi piace cambiar canzone e impedire che Battiato abbia l’ultima parola. E dopo quando ti assale la tristezza, ad ogni addio sui binari. Si piange sempre un po’, mi aiuti a caricare i bagagli io ti saluto tra tutte quelle luci, nella sera che incombe e ci allontana. I kilometri si sfilacciano. Il tempo si sfalda. Il tuo profumo no. Mi manchi. Mi manchi. Sì. Questo è il mio pensiero fisso del giorno. Sei un’oasi. Sei l’armonia. La nota che mancava al profumo affinché diventasse immortale, non passasse mai, in quel film con quell’assassino psicopatico. E se chiudo gli occhi vedo te che mi guardi, senza sorridere, senza parlare, mi sento meglio, mi dai il coraggio di riaprirli. Di essere fiera di me anche se sono uno schifo pazzesco, di non sentirmi meno perfetta degli altri. O almeno credo. Buonanotte, ti amo.

domenica 20 giugno 2010

C 7 Nervi Scoperti .







I giorni passavano. Nulla. Non accadeva nulla. Inspirava forte il sapore del nulla. Il buio le baluginava davanti. Nella sciarpa fucsia, l’unico particolare che potesse distinguerla dalla notte. Viso pallido, vampiresco, a parte. Lilith si sfiorava le labbra con le dita gelide. Pioveva. Come quella volta. Pioveva e le si strappava il cuore. Come un motore di una vecchia Panda che graffiava tentando di celare la sua età. Negli occhi qualcosa che rasentava una nebulosa grigia. Le pupille vitree. Stava fumando troppo, le veniva da tossire. Sentiva la gamba tremarle. Eggià. Come empatizzare oltre ogni limite. Le labbra sulle labbra. Respiri di silenzi. Ricordava con perfezione il momento in cui le loro bocche si erano toccate. O meglio, Luxor l’aveva baciata. Poi aveva ignorato l’accaduto. Semplicemente non era successo. Il niente. Ecco il punto. La pioggia le bagnava le mani, le dita sulle labbra, il freddo pungente. Quella panchina dove erano iniziati i suoi guai. Era sola, come sempre. Nei momenti in cui vale la pena chiedere aiuto si è sempre soli. L’odore del silenzio era pungente, acre. Il fango sulla strada. Il contrasto delle luci, quei lampioni le fagocitavano l’anima.
Non aveva avuto il coraggio di restare sola, così aveva comprato dell’alcol. Al supermarket. Dal tipo strano che sorrideva senza mento. Con i denti gialli e appuntiti, che voleva a tutti i costi passare per simpatico. Gli avrebbe ficcato un coltello nelle budella. Premere su e giù per impedire la cicatrizzazione, come diceva quel libro. Sarebbe crepato in venti minuti. Per imparare ad uccidere un uomo basta leggere romanzi, memorizzare e intrecciare le vicende. Per vivere bastava guardare fiction in tv, e sorridere, sorridere sempre. Aveva preso della Vodka, e delle caramelle gommose. Mancava solo Luxor. Era l’assenza la nuova presenza. Palahniuk non mente.
L’assenza.
Le correva nelle vene. Le bruciava l’anima. Viva e morta. Veleno dei poveri.
Luxor non c’era.
Le aveva scritto un messaggio. Alle prove aveva conosciuto una ragazza. Non gli piaceva granché, ma lei pareva adorarlo. Mangiarlo con gli occhi. Voleva uscire con lui.
Quelle parole le correvano davanti agli occhi, spilli nella carne. Assideramento.
Bene, buona fortuna.
Era riuscita a rispondergli solo quello.
Buona fottutissima fortuna.
Divertiti e non pensare alla Stronza. La presenza che comunque si frapponeva tra loro due, se mai un loro due ci fosse mai stato. Lei che era bella e seducente, con le gambe storte e il naso alla Carrie, e che era bella da far male, al punto che lui dimenticava perfino il dolore per la mancanza dell’Innominata per bruciare come una falena al fuoco dell’ossessione.
Quante assenze le impedivano di essere viva.
Luxor non c’era.
Le malattie a volte non hanno bisogno di un patogeno per manifestarsi.
A volte il patogeno non deve essere necessariamente virale o batterico.
I sentimenti infettano perfino gli appartamenti. Hanno sporcato perfino le capitali. I sentimenti sono il cancro del mondo.
Così lei restava a fissare il vuoto. La settima cervicale scoperta nonostante la pioggia. I capelli ormai viscidi e zuppi nascondevano i suoi occhi.
I nervi scoperti. L’ecatombe. Le esplosioni nucleari di Chernobyl.
Lilith per questo aveva una bottiglia di Vodka sotto la pioggia. E non piangeva. E fissava il vuoto.
E lasciava che il vuoto potesse, attentamente, guardare lei.

sabato 19 giugno 2010

C 6




L’umorismo era il loro forte. Si dovevano ubriacare per ridere a briglia sciolta sulle loro disgrazie. Nonostante questo Luxor non perdeva mai abbastanza il controllo per parlare del male maggiore, non era di certo roba da condividere su due piedi solo perché i vestiti erano impregnati di alcol e odori corporei e si lacrimava vodka dalle fessure oculari.
Era piuttosto argomento di conversazione che si affievoliva nei giorni feriali per infuriare a novembre, quando nessuno avrebbe potuto impedirgli di chiudersi in casa e sognare di diventare un agente segreto, cantante, poeta, strimpellatore professionista con il ciuffo alla De Andrè e con mille storie impossibili con puttane inafferrabili delle mille vie del Campo del mondo.
Lilith si aspettava un futuro più o meno comune, diceva sorseggiando dal bicchiere qualcosa di apparentemente velenoso. Anche se, in effetti ce l’aveva anche lei un’idea che le balzava per la testa fulminandola, poi scompariva e non faceva più capolino perché la relegava nelle segrete dei mille castelli illuminati di pianura con cinghie di nebbia che e camicie di forza e maschere di cuoio.
Le piaceva scrivere, per questo si finiva spesso per parlar di libri, a volte si ripiegava sulla politica ma nessuno dei due ci capiva abbastanza. Coglievano l’indispensabile, avevano degli ideali che nessuna fazione per ora sapeva rappresentare.
Dovremmo adattare la tecnica Woodstock, suggeriva Luxor sputando nell’aere quintali di fumo.
E quale sarebbe?
Scopare e suonare per governare il mondo.
Mi sembra un’idea di parte. Io non so suonare.
Nemmeno io, ma potrei essere Ministro del Sesso. Se vuoi te lo dimostro, e per te farei anche lo strappo alla regola rendendomi ridicolo nel suonarti una serenata.
Ridevano, nessuno dei due era troppo d’accordo, o almeno questo volevano far credere all’altro.
Poi finivano per sedersi per terra, si accendevano una sigaretta, l’ennesima. Nei loro cappotti neri, nei loro sguardi ambrati dai lampioni accesi, il centro dello spazio sembrava sconfinare ed era l’infinito a dominarli, la piazza non serviva a nient’altro se non permettere loro di sdraiarsi, erano i senzatetto del futuro, erano punti di domanda a cui non era necessario dar risposta.
Se ne infischiavano di Dio e della morte, semplicemente bastava esistere, occupare uno spazio, sentirsi reali.
Forse fu per questo che le si avvicinò per darle un bacio senza che lei si scansasse.
Forse fu per questo che poi le domandò perdono e si nascose la testa tra le mani come se avesse compiuto un delitto.
In effetti il delitto era stato compiuto, ma questo non era importante.
Lilith rimase a fissare il fumo che le usciva dalla bocca, gli occhi accesi color di foglia bruciata, l’espressione persa nel cielo più cupo che la schiacciava.
Il suo cuore crepitava nel petto, ma questo non era necessariamente un problema.
Le labbra rosse, ancora umide, il segno della sua resa.

sabato 12 giugno 2010

C 5

L’universo attorno a noi mi fa sentire così piccola.
Luxor la osservava sorseggiando un po’ di vodka, le brillavano gli occhi, aveva le guance colorate di rosso.
Le disse che era l’universo che albergava negli uomini a farlo sentire smarrito e confuso.
Le aveva parlato di una ragazza che amava a tempo perso. Era come vivere la ballata dell’Amore cieco e della Vanità, aveva asserito con aria seria. La gelosia aveva iniziato a tormentarla, l’aveva schiacciata fino a soffocarla, doveva recidersi la carotide per non pensarci, ma quel bruciore nello stomaco poteva benissimo collegarlo allo stress, non era perché desiderava che Luxor non vedesse il bello in nient’altro che l’inanimato, o l’inarrivabile, come la musica, l’arte, il fascino della bellezza come essere assente e ineffabile. Le belle ragazze che lo ferivano e gli davano il tormento non potevano intromettersi nell’immagine perfetta che aveva di lui. Anche se Luxor non faceva altro che parlare dell’altra. Non era una persona che si potesse nominare, bisognava attestarne l’esistenza in silenzio, darle un nome, un volto, era malefico, un peccato mortale, o comunque gli riusciva difficile riversare anche quel brandello di umanità in Lilith senza scoppiare in pianto.
Non che l’amasse, almeno non credeva fosse quello l’amore. Però c’era qualcosa di sbagliato in lei che lo attirava. Forse la sua incapacità di sceglierlo. Forse l’averlo sedotto e abbandonato. Le raccontò di quando gli aveva mostrato le gambe, lei si vergognava delle sue ginocchia, della bellezza imperfetta di quegli arti che ai suoi occhi sembravano divini, superiori a quelli comuni.
Lilith annuiva, lo stomaco pareva scoppiarle, ma annuiva. Le disse di quando lo gettò sul letto e si confusero tra le lenzuola senza dire niente, non era necessario parlare. Poi lei tornò dal suo ragazzo, un universitario con l’alitosi, e gli disse che era stato solo un errore da dimenticare.
Io mi ci ero affezionato, biascicò lui guardando il soffitto.
Io quando sono giù mi imbottisco di caramelle. Sempre meglio che imbottirsi di farmaci.
Io di vodka, quando bevo vodka o scrivo c’è sempre qualcosa che non va. Lilith, dovresti perdonarmi, ti sto riempiendo la testa di stupidaggini. Le mie sciocchezze. Non dovresti voler essere mia amica, non c’è nulla di buono in me.
Hai bisogno di altra vodka, sentenziò lei, abbassando gli occhi ad analizzarsi le scarpe.

C 4




Spesso la portava in giro, al parco. Una piccola foresta portatile, che si ergeva nell’asfalto. Era terribilmente sbagliato desiderare che l’acchiappasogni le impedisse di star male, ma Lilith aveva deciso di scongiurare il dolore e abiurare il buonsenso semplicemente non pensandoci.
Lui aveva un umorismo nero e la gamba continuava a fargli male. Un passato fatto di rinunce, di perdite, di persone volatilizzate. Lei voleva spiegargli che non vi era nulla di particolarmente eccezionale in un passato di merda, era condiviso da tutti, o quasi, chiunque percepiva l’abbandono in un modo differente, tutti ne uscivano sconfitti, non c’era modo per sfuggire alle cicatrici che erano state imposte dal destino, da dio, dalle navicelle spaziali da cui i primi uomini erano atterrati.
Luxor allora le rivolgeva un’occhiata tagliente. Lilith si sentiva perforare da quegli occhi. Che dopotutto non avevano nulla di speciale, ma era come venir esposti ad un microscopio, analizzati dal più ambizioso dei ricercatori. Con scrupolo e folle voglia di rivoltare tutto. A volte, passeggiando nei vicoli rinascimentali, lui le si avvicinava e le baciava la guancia con aria sperduta. Ed era giusto e naturale che così fosse, cosa poteva esserci di sbagliato in un gesto simile?
Lilith si domandava perché lei non potesse ricambiare. Quando pioveva abitavano lo stesso ombrello rosso del primo incontro, si fermavano davanti alle vetrine dei dischi, lui le indicava qualcosa che a lei interessava poco dapprincipio ma poi, per qualche motivo iniziava ad incuriosirsi.
“Sai ho una band” le disse come ricordandosene all’improvviso “ dovrei portarti a un mio concerto. Saresti la mia ombra. Non ti lascerei sola, non sei un puntino nel marasma di facce che dimentico. Lilith probabilmente se tutto fosse diverso” si fermò e ricominciò a impartirle lezioni sui migliori libri da comprare per sopravvivere ad un inverno di periferia.
Lei annuì senza voler sapere come continuasse. Dopotutto non c’era null’altro da aggiungere. Probabilmente in altre circostanze sarebbe stato tutto diverso. Lei probabilmente non si sarebbe fermata colpita da chissà quale ispirazione divina a soccorrere quel semibarbone postadolescente che si scolava birra e macinava canzoni antisociali alla luce di un lampione storpio in pieno centro.
probabilmente sarebbe passata avanti, ignorandolo e impedendosi di commentare francamente la scena. Probabilmente.
O forse avrebbe fatto lo stesso comunque. Probabile.

venerdì 11 giugno 2010

C 3




Bevevano come folli. Luxor le raccontava alla luce di quel locale pulcioso pieno di insegne e facce di Stanley Kubrick di come fosse difficile credere ancora. Quando tutto pareva sfumare in un punto interrogativo sfaccettato di nero. Lilith si domandava come si fosse alzato dal baratro, cosa l’avesse spinto a continuare a parlare, bere, mangiare. A non sciuparsi.
Non sarebbe stato utile a riportarla qui, bisbigliò francamente. Per un periodo non le disse di chi stesse parlando. Poi le spiegò della malattia, delle ore trascorse in corridoio.
Non hai idea di come facciano male le gambe quando resti in piedi per venti ore di fila a fissare la vita sciabordare via. Ma dopotutto cos’era il mio dolore al confronto del suo? Lei era trafitta dalle flebo, un tubo le permetteva di respirare, non aveva più capelli, le labbra screpolate, la pelle verdastra, era diventata un ammasso informe, deperita, distrutta, sfiancata. Ma era pur sempre lei.
La birra colava dal boccale, gli disegnava gocce sul collo, che si disfacevano, nuvole di lenzuola. Luxor non aveva idea di come quelle parole le facessero male. Non era una semplice pena, un dispiacere. Era malessere fisico, lui si liberava e lei tornata a casa si chinava in un angolo a piangere, strapparsi i capelli, perdersi nei silenzi e nei pensieri più cupi. L’empatia faceva male e non c’era modo di smetterla, era dipendenza, la dipendenza da un semisconosciuto che le parlava di amore e morte e le consigliava buoni libri e buona musica e buoni ansiolitici, semmai li avesse voluti, ma che rimaneva comunque un estraneo.
Si salutavano di fronte al castello, lei non diceva niente, gli sorrideva con aria malinconica, lui le bisbigliava qualcosa in un dialetto incomprensibile, e immancabilmente spariva nel cappotto scuro, i capelli al vento, la gamba leggermente fiacca con cui zoppicava a intervalli regolari.

C 2 Epistrofeo.




Aveva dei lunghi capelli neri che gli coprivano gli occhi. Ebbe il coraggio di scrutarli solo un attimo, azzurri. Era seduto su una panchina segnata dalla pioggia. Le scritte indecifrabili di amori naufragati. Un po’ di foglie secche per terra amalgamate in pozze fangose. Il suo ombrello era troppo rosso, e le mani le tremavano, e il cuore era incastrato nell’esofago, non era donna di grandi azioni. Eppure lo sconosciuto che fissava il vuoto in maniera talmente perfetta le stava perforando il peritoneo, si disincagliava la cistifellea, arrivederci dotto biliare, ciao. Aveva un modo talmente educato e anacronistico di restare in silenzio e di impedirsi di piangere.
“Serve un ombrello sul capo con questa pioggia. Posso sedermi?”
Lui la fissò e quegli occhi parvero trapanarla da parte a parte.
“Credevo che fossi l’unico in città a importunare gli estranei” bisbigliò lui, sfatto.
“Mi chiamo Lilith, e non ho potuto non fermarmi. Sono un’impicciona, perdonami”
“Io mi chiamo Luxor, e a quanto pare sono irresistibile quando puzzo di alcol e sono sull’orlo del suicidio”
“L’espressione giusta è faccio pena, ma chiamala come vuoi, dopotutto sei tu quello depresso”
Non ci si rende conto fin da subito quando un istante cambia la tua vita. Quel giorno però le si spezzò l’epistrofeo, e ci volle un niente perché il respiro sfumasse e tutto diventasse buio.

C 1








Si pettinavano le vene scheggiandosi con le punte dei denti.
Il sangue sembrava raggrumarsi nell'esofago ed era complicata la peristalsi.
Le chiedeva, steso sulla moquette, da quanto tempo lo stesse osservando.
Lilith si raggomitolava in un angolo, sprofondando gli occhi da qualche parte sotto i capelli, perdendosi tra le braccia e il petto. Non rispose, decise di diventare parte del muro, del copriletto, del lilla indistinto di quella stanza di merda.
Non avrebbe singhiozzato quella volta. Si malediceva di essere così succube.
Ora che si era giocata l'ultimo brandello di dignità non le restava altro che assistere l'oggetto delle sue disgrazie, il suo vaso di Pandora e attendere la caduta nel baratro. Il nero più cupo che le colava nell'aorta, e piano lei moriva in silenzio.
Le chiese di chiudere le tapparelle, sigillare la porta, non doveva entrare la notte in quella stanza.
Come se non fosse già notte da tempo.
Una notte perenne che seguitava a metastatizzare loro addosso.

martedì 8 giugno 2010

Dissero Addio per Sempre.



Camminavano e le sigarette disegnavano i loro silenzi appena accennati. Incartapecorirsi fino a ostentare piccole crepe nell'opulenza della pioggia più cupa. Quando i lampioni abbagliavano quegli occhi così feriti da sanguinare tempesta e il sangue disegnava sulle labbra piccoli zampilli di fermezza, un rossetto che nessuna donna osa adoperare. Poi si faceva tardi e con le mani spingere verso l'infinito perchè fosse un po' più spazioso. Nel comfort dei sedili delle astronavi che puntavano quell'osservatorio per UFO che è semplicemente un paesino altezzoso cozzare labbra contro labbra in un inevitabile chiasmo. I respiri sincopati e le canzoni alla radio. Quando persero cognizione del tempo, del corpo, del pensiero per imbarcarsi nella peggiore delle missioni, panismo dell'indistino, la spazzatura del reale abbigliata di rottami e fazzoletti verdastri, stendersi e confondersi coi volantini strappati per non vedere, quelle parole che dardeggiano, quelle parole che stepitano. E' lacerante sentirsi così maledettamente vivi ed essere confinati nei propri errori, piccole celle arredate ubicate in pochi metriquadri nella mente, dove non arriva nè pane nè acqua e ci si scarnifica a poco a poco rimembrando le giornate passate a bruciare gli steli dei fiori primaverili, su fiumi inevitabilmente pesti, con gli abiti migliori e i sorrisi meno sinceri.
Parlarono velocemente, con accenti vaganti che parevano pallottole, dalle finestre li fissavano uomini già morti e le tendine a pois giallognole, lei aveva un rossetto pretenzioso, lui una maglia in cui voleva raccogliere il colore dei cieli, si bisbigliavano poesie andate a male, le utopie delle quattro di notte che sfumano nei sogni, dei televisori e degli inceneritori e dei disastri ambientali dove le spiagge sono state malmenate dalle bottiglie di vodka scagliate contro il dolore.
Si tenevano la testa, volevano dimenticare, si stordivano arricciandosi le ciglia con la salsedine e il sentore del più puro smarrimento.
Non avevano coraggio di urlare contro i tombini, per questo se la presero con il cielo.
In quel buio immondo senza alcuna ragione sparirono.
Si fissarono negli occhi per un istante e si dissero addio per sempre.

lunedì 7 giugno 2010

Inscatolare il Dolore.




Mi sembrava complicato inscatolare il dolore, piccole pillole da smarrire per strada, nella simmetria ferrica dei tombini umidi, dove scivoli, e maledici la pubblica istruzione perchè non sai proprio quale perifrasi inventare per nascondere il capitombolo.
Quella volta pioveva e mi hai detto che era proprio come volevo io.
Poi mi abbracciavi bisbigliando qualcosa di incomprensibile in inglese antico.
Le promesse nelle erbe e i papaveri devastavano i campi, c'era rosso dapperttutto, mi pareva di annegare tra quei simulacri di parole tra un litigio e l'altro, perdendo il senso, sciogliendomi in cremosa disfatta, smarrendo il punto.
Poi il punto arrivava e ci si sorrideva ancora e sembra difficile credere che si è trascorso del tempo a scagliarsi addosso le illazioni peggiori, i malumori stagionali, quelli che ricopri con il cellophane quando è ora di fare l'inventario della tua vita, li ingabbi in un armadio retrò e indossi senza vergogna un foulard che sa di Parigi e di tragedie facili.
Ti sto bruciando l'anima con l'arancio del mozzicone e mi faccio male nell'intento di ucciderti.
Non domandarmi perchè lo faccio, deve essere semplicemente che sono una fottuta puttana.
Ma tu mi parli d'amore, con la schiena bruciata, con gli occhi che piovono affetto, tutto quello che io non so dare. Quando è esplosa la bomba atomica qualcuno stava ridendo. Mi accarezzi i capelli dicendomi che non dovrei preoccuparmi di niente. I silenzi fanno male e non bisogna mai smettere di parlare. Poi ti siedi nella vasca e cerchi nello specchio un mio sorriso.
Infine ti lasci sconfiggere dal rubinetto, abbassi il capo, ti si bagnano le calze, ti si bagnano le ossa, le arterie più mostruose, i globuli rossi.
P non mi abbandonare.

domenica 6 giugno 2010

Definire i contorni .


Decidemmo di non parlare. Di restare a fissare le stelle. Si crepava la volta celeste. Minuscole scaglie del nero più cupo. I petali dei tumori che ti metastatizzano addosso. Come gli abiti delle signore di classe.
A rincorrere le maschere e i dieci comandamenti e i dieci telecomandi si rischiava di ferirsi. Di compatirsi. E sgranocchiare dei cereali al cioccolato non è necessariamente una priorità. Ti hanno raccontato delle leggende metropolitane, e tornata a casa ti sei resa conto che parlavano della tua vita.
Come quando ti fissavi i polsi e ti domandavi quale misteriosa forza ti impedisse di tagliarli. Colorare con i pastelli le vetrate delle cattedrali. Quell'odore di crisantemi. Le belle vestali che vanno a letto con i principi dei cieli. Le battaglie epiche al telefono per dirti ti amo senza strafare. Abbiamo passato parecchie ore domandandoci cosa ci permettesse di riconoscerci nonostante gli innumerevoli viaggi sui binari. Trovi metafisico passeggiare per l'Italia, infischiandosene dell'Eurostar, dei ritardi e dei biglietti troppo costosi. La tua voce dissonante e quell'accento appariscente che ti fa ridere a cinquecento chilometri di distanza.
Poi viene sera e lo stucco scivola giù dalle pareti e dalle tue guance.
Non rimane che rossetto sfatto a definire i contorni.
Un brindisi ai nostri anni amari. Che passeranno.
E allora ci sarà sul serio da preoccuparsi.