domenica 14 novembre 2010

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Voglio ritornare a quel venti marzo quando le città erano osservatori per UFO e la nostra macchina era un'astronave diretta verso il niente e ti fissavo con l'imbarazzo negli occhi e mi guardavi come se prima non avessi conosciuto niente.

sabato 13 novembre 2010

E tu che collassavi.




Mi guardavi e i tuoi occhi sapevano di mare anche se non c’era un briciolo di azzurro lì dentro. Le pupille scure, dense, potevo sentirle sul mio collo, mi rendevi isterica e frivola. A volte fumavo troppo solo per sentirmi dire che sarei esplosa, le sigarette mi avrebbero distrutto i polmoni, non potevi sgrassarmeli se non a furia di scoparmi, ma non eri certo fosse la soluzione migliore. Ci lucidavamo giornalmente le migliori intenzioni ognuno sporcandosi la maglia per l’altro, sorridevi ed avevi dei sorrisi aspri, dalle labbra tumescenti, mi piacevi anche quando sembravi un morto, con i capelli sempre troppo scomposti e gli abiti sdruciti, facevano tanto decadentismo quando bevevamo fino a piangere sotto i portici. Si piangeva sempre molto tra una storia andata a male e una canna rullata alla perfezione, erano momenti afrodisiaci, i paradisi artificiali in cui perderci. Bisbigliavi al telefono e cantavi in tedesco perché per te era impossibile limitarsi ai cromatismi apocalittici dell’italiano, non erano abbastanza, cercavi il punto e nella galassia in cui sprofondavamo a fine settimana era sempre meno distinto e più distante e vedevo disfarti, gettare a terra ogni obiezione, riconciliarti con i tuoi parenti morti e con le foglie autunnali già cadute. A volte mi parlavi di poeti che non conoscevo e di filosofi che non avrei voluto conoscere, era una sfida alla morale il resisterti ed io ero assolutamente amorale, non avevo fegato, mi lasciavo travolgere, i castelli sparsi per le città incivili parlavano di noi, quelle luci di plastica ci ripetevano all’infinito che era sbagliato ma non c’era niente di più giusto, avevamo firmato un contratto per l’inferno ed era nostro dovere adoperarci ad adempierlo. Mi guardavi e i tuoi capelli mi filtravano l’anima, un setaccio maldestro tra le mestruazioni e gli yogurt pomeridiani, tu mangiavi stonato mormorando che ne avresti fatto volentieri a meno, mi ripetevi che era impossibile sopravvivere in una miriade bizzarra di eventi. Come proiettili sparavamo alle cattedrali per abbatterle, tu e le tue idee malsane, i fiori del male afflosciati nei bicchieri, bevevi sambuca per stordirti, le gengive sanguinavano allegramente, io avevo gli occhi sempre gonfi, ti piangevo addosso e non te ne accorgevi, era un piacere maltrattarti e poi chiederti scusa nel silenzio degli altipiani dove eravamo sempre più sinceri e sempre troppo fatti. I binari sorvolavano i cieli, mi salutavi dalle periferie più remote di quelle che se le senti rispondi mai sentite, ed io ti facevo ciao ciao con un fazzoletto immaginario, le mani appiccicate al finestrino, il naso appiccicato alle mani, le mie gambe che si chiudevano a stento per trattenerti meglio, un secondo in più fino allo stremo, mi ricordo di letti sfatti e baci da ospedale, nelle nostre macchine astronavi che gravitavano a due passi dall’asfalto, lo tingevano di promesse da tenere in caldo per l’inverno, era doloroso risvegliarsi e scoprirsi soli, quei materassi improvvisamente allargatisi a dismisura, il freddo dei piedi che ti pietrificava, amore dove cazzo sei andato, le sigarette sul comò e non hai scuse per non esserci ma non ci sei. Mi chiedevo cosa avremmo fatto una volta che a Bologna fossero tornate le stelle, ci bendavamo le labbra e tu fumavi alla finestra con le braccia conserte, lo stelo della tua Lucky Strike disegnava un angolo acuto, per tirare i problemi non mancavano mai.  M.