sabato 6 febbraio 2010

(Piromani) si muore.




Le ossessioni, i malumori, l'alito cattivo, gli autobus, le biciclette, i cerchi alle orecchie. Poi appesantirci con un po' di vino che sa d'aceto e i tuoi enzimi sono più ubriachi di te, cosa vuoi che catalizzino. Perchè a volte un tiro a segno può essere la tua unica ragione di vita. Come quando la notte ascoltando Piromani si muore ti senti travolgere dal calore delle lenzuola. Le invaginazioni di membrana e il materasso che si incurva e no, non ti ritrovi a Narnia, ma stai piangendo, e la musica gracchia ancora, andiamo a vedere le luci della centrale elettrica. Andiamoci a questa cazzo di centrale, ma la vedi da dietro gli occhiali da sole e c'è un finestrino a frapporsi tra le storie di ieri e i capitomboli di un sabato insensato trascorso tra alfa eliche e foglietti beta su cui non si può nemmeno scrivere. Grazie a te so che se non riuscissi nemmeno a muovere il braccio potrebbe essere un infarto. Mi vengono in mente frasi che si rincorrono formando un cubo di Rubick che nemmeno Rubick ha osato risolvere. Ci sono dialoghi che si riducono a sillabazioni singhiozzanti, e cuori che si ossidano alla luce comatosa degli ecocardiogrammi spenti. Quando avevamo gli occhi a portata di labbra e ti baciavo le ciglia dicendoti, respira. Per dormire mi imbottisco di aspirina e di tritolo, e da un po' non c'è nessuno che dice in giro che odio il mio lavoro. Ti dedico questi silenzi imbarazzanti. Gli orgasmi degli yogurt. I capelli dall'andamento strano. Le onde acustiche e la luce bianca del neon di questa camera asettica che puzza di tonno. Ti dedico tutto questo più i miei diecimila principi appesi male, i post it, le illazioni, i silenzi tragici in cui ci siamo nascosti, infarcendo gli scatoloni di vecchie scarpe che ci sono sempre andate male. Le ristrettezze economiche e le righe sui tuoi pantaloni. Il nero non è mai stato il nostro colore di bandiera, ma c'è qualcosa di melanconico nel suono di violino e diventa tutto rosso sadico quando la metropolitana ne viene travolta. Le note stridule e obese e la tua voce che ormai ignoro. Tu che ti sedevi a un tratto sulla moquette e imploravi che ti calmassi. Le iniezioni di buonsenso. I prati verdi. La canzone del sole. Non riesci a capire quanto possa trovare delicata La canzone dell'amore perduto dopo aver ascoltato cosa ne pensavi. Sono così influenzabile che il termometro sballa costantemente. Evviva l'eme e le apoproteine che impediscono all'eme di far baldoria. Poi mi viene in mente che non ho mai capito dove cazzo fosse finita Gloria. Non che voglia svendermi su quel fiume e ricoprirti d'oro e darti in pasto i miei scrupoli e tornare ad essere il ritratto di Dorian Gray come tanti anni fa. Quando avevamo un Eskimo addosso ed eravamo innocenti come le carpe nei fiumi. Con la bocca rossa, ci scambiavamo sorrisi. Poi mi assillavi con la discrezione sdrucita di chi è ansioso d'amare e io mi schermavo dietro torri di Babele bianche, con vessilli invisibili, mi appendevo lì e dondolavo, cullandomi delle tue lusinghe.
Poi sono franata, e nella caduta sai, non urli fino a toccare terra, muori ad un tratto e non sei più. Restano di te solo le cose mai fatte, e i pensieri incastrati nell'ingranaggio metafisico della coscienza, un po' di olio per sgrassare le porte dell'azione, la percezione del fantastico dovrebbe andarsene a puttane. Siamo realistici con le nostre gonne a pois e il rossetto disdicevole. Sono stata troppo sgarbata nel non dirti che avrei voluto poter essere su quella panchina con te, quella volta?Quando tutto è iniziato. Quando mi hai detto "pensavo che solo io mi affezionassi così in fretta alle persone", quando potevo ancora mollare, andarmene a sporcarmi di altre illusioni. Quando già era iniziato a finire il mondo, e non facevo altro che domandarmi quale sarebbe stata la prossima mossa.
Vorrei poterti dire queste cose, più o meno, invece che scriverle maldestramente in uno scroscio di pixel sprecati. Mentre tutto è collassato. E le passanti sono state soppiantate dall'imperatrice. Vorrei dirtelo. Come eravamo belli quel giorno in cui è finito il mondo.

mercoledì 3 febbraio 2010

Il vero punto.





Lei proiettava su di lui le sue migliori aspirazioni.
La poesia indefinita di una giacca nera e dei viaggi nella vecchia Russia.
E pareva diventare bella giorno dopo giorno, una cascata evolutiva che le rimescolava il fenotipo.
Dentro qualcosa le diceva che a infrangersi non ci voleva niente.
Masticava gomme americane, e sigari cubani, e dei mille accenti scozzesi che le bagnavano le labbra non sapeva che farsene quando alle sei di mattina morivano tutte le stelle. L'ecatombe la coglieva di fronte allo schermo di un computer, ed era naturale collassare sulla moquette, in sincrono, sentire il dolore perforarle l'ombelico per un amore frustrato e ossessivo che non aveva nemmeno il diritto di definire morboso. Quello sconfinava in un campo privato, non si possono rubare i fiori alla regina di cuori.
Lui parlava con una cadenza indecifrabile che la faceva sorridere. Un'ombra dai capelli lunghi che Amleto avrebbe deriso tra un monologo e un incontro spettrale. I bicchieri colmi di verità si crepavano in superficie ed era bizzarro poi incontrarsi di nuovo, dopo i pasti e santificare le feste, mostrarsi le ferite, leccare il sale, benedirsi nella tequila e nell'espiazione di un quarto di limone.
I telescopi, gli ottovolanti, i tarocchi della fortuna, e i tiri al bersaglio erano promesse intrinsecamente non mantenibili, c'era qualcosa di brumoso che affiorava dopo ogni puntata di Annozero ad accertarlo.
Però era bello lasciarsi cullare dall'indistinta sensazione della condivisione, del collettivismo, di un'amicizia che era stata solo parassitismo e scambio acrobatico di sorrisi e paure. Donarsi le ansie, l'emocele irrorato di morfina, il sangue affiorava sulla pelle, le guance si coloravano di vittoria.
Poi lo strapiombo, le luci artificiali che dardeggiavano promettendo male, i telefoni chiusi in faccia, il silenzio armato, l'ebbrezza per non sconfinare nel pianto.
Tornando a casa lei si sentiva appesantita da nuove tragedie greche e lui svuotato come dopo una sessione terapeutica degli alcolisti anonimi.
Il dramma non era tanto che Le Chatelier avesse comunque ragione.
L'accondiscendenza, la recisione dei polsi, l'accettazione del ruolo di balia, questo era il punto.