sabato 2 aprile 2011

In metropolitana si sentiva suonare.


Mi ricordo che in metropolitana si sentiva suonare. I passanti blateravano, si acconciavano i capelli, tiravano su con il naso, si aggiustavano i pantaloni, passandosi un dito sopra le labbra, un fazzoletto contro il sudore, assestandosi il pacco, sorridevano al loro bambino, soffrivano il caldo, si appiccicavano ai pali, alcuni si baciavano, altri discutevano di quante puttane ci fossero in una città sola, la città che sale e che va troppo in fretta perché tu possa stare al passo, alcuni ascoltavano musica, c’erano varie scuole di pensiero su come aspettare la fermata successiva senza dover necessariamente annullarsi e divenire un viso grigiastro nel marasma dell’anonimato più cupo. E dopo tipi strani di ogni colore che tu gli scrutavi e pensavi agli attacchi terroristici e dopo pensavi a quanto tu potessi passare per razzista pensando a una cosa simile, e poi ti sentivi in colpa e iniziavi a riflettere su quanti maniaci abitassero in una città sola, e dopo vedevi salire nuovi gruppi, suonatori di organetti, studenti della tua università, abbassavi il capo per non doverci parlare né salutare, lasciavi indugiare lo sguardo sulle scarpe, quando si è in imbarazzo la cosa migliore da fare è passare il tempo fissando le scarpe, e dopo ti perdevi alla ricerca del romanzo da comprare, in un vagone c’è necessariamente qualcuno che legge, e chi sonnecchia, e qualcuno prova ad appoggiarti il cazzo al culo e a spingerti, e tu fai finta di non accorgertene mentre senti salire lo schifo e il terrore che si incolli proprio addosso a te, e qualche volta è successo, e ti dici che deve avere dei gusti pessimi per riuscire a farselo venire duro con un mostro simile. E dopo entrano per l’elemosina, i bambini e gli storpi, gli storpi spesso sono sani e si spacciano per malmessi così ti fanno pena, i bambini invece non fingono, loro sono stati istruiti a comportarsi così, e quegli occhi profondi e senza speranza sono proprio i loro, e tu non puoi sfuggire a quello sguardo senza sentirti colpevole,un aguzzino. In realtà quando salgono ti arrabbi e vorresti prendere a calci i loro genitori, questo è sfruttamento, urleresti se avessi un briciolo di coraggio, ma sei codarda e così ignori semplicemente il loro sguardo, la loro musica da quattro soldi, la loro presenza, il loro occupare uno spazio fisico. In metropolitana si sentiva suonare, e quando non capitava allora potevi ascoltare un po’ di musica, a rischio di far incazzare i tuoi vicini, qualche volta scoppiano le risse quando la metropolitana è troppo piena e non si respira e il tuo corpo smarrisce i contorni e ti ritrovi con la mano sulla schiena di qualcuno che ha le gambe incollate a quelle di un altro ancora. A volte avrei voluto essere morta piuttosto che prenderla, ora ci ripenso con un certo gusto, è forse il posto che più mi è rimasto impresso della mia permanenza milanese, anche perché passavo almeno un’ora al giorno in quella bolgia, in un modo o nell’altro avevo imparato ad amarla. C’erano momenti unici là dentro che porterò sempre con me, Alzheimer permettendo. Il primo è quando andammo a vedere Alice In Wonderland, eravamo almeno in dieci, e ci mettemmo in cerchio in un vagone qualunque a fare un gioco in cui bisognava resistere senza ondeggiare, senza cedere ai sobbalzi che la differenza di velocità provocava, c’era Federico e non eravamo ancora così amici, o forse lo eravamo diventati da poco, e ricordo che rideva tanto, ed io ero felice che ridesse e che forse, quella sua felicità dipendeva anche da me. E dopo il ricordo migliore è quello in cui io e P. stavamo seduti ad ascoltare l’ipod ed è uscito Inverno, la canzone di De Andrè, ed io chissà perché mi persi completamente nel brano e nella drammaticità della musica, stavo per scoppiare a piangere commossa, e lui restava in silenzio e fissava in basso, ogni tanto mi spiava, ma questo lo scoprii solo dopo, quando ebbe il coraggio di spiegarmi che in quel momento ci eravamo commossi entrambi, ma soprattutto lui, perché aveva sentito la mia commozione, era uno di quei momenti assurdi in cui si prova la stessa cosa e non si sa dare un peso ad un simile avvenimento, sono quei momenti confusi in cui ci si sente nuovi e diversi, e non si gestiscono bene le emozioni e non si riesce a comprendere come sarà il domani, o se ci sia un futuro. Sono quei momenti in cui tutto sembra immobile e invariato ma in cui si percepisce un crack, una minuscola crepa, forse uno spiraglio e spiando imbarazzati dal buco ci si rende conto che tutto è cambiato e irriconoscibile, è una velocità superiore a quella del nostro occhio, una luce esplosiva a cui la pupilla deve abituarsi. Solo perché non siamo riusciti a vedere non vuol dire che non ci sia niente. Sono quei momenti in cui si è felici, completamente persi nella gioia e di cui ci accorgiamo sempre in seguito, quando la sensazione è già dissolta e le cose sono cambiate irreversibilmente, che io ricorderò per sempre, per cui io ringrazierò costantemente, per cui posso giustificare e comprendere i miei sbagli e i miei fallimenti e ripensare al passato guardandolo da una nuova ottica, in cui mi colpevolizzo di meno e mi amo di più. E con questo concludo, perché per oggi ho scritto troppo.
M.

Nessun commento:

Posta un commento