venerdì 11 giugno 2010

C 2 Epistrofeo.




Aveva dei lunghi capelli neri che gli coprivano gli occhi. Ebbe il coraggio di scrutarli solo un attimo, azzurri. Era seduto su una panchina segnata dalla pioggia. Le scritte indecifrabili di amori naufragati. Un po’ di foglie secche per terra amalgamate in pozze fangose. Il suo ombrello era troppo rosso, e le mani le tremavano, e il cuore era incastrato nell’esofago, non era donna di grandi azioni. Eppure lo sconosciuto che fissava il vuoto in maniera talmente perfetta le stava perforando il peritoneo, si disincagliava la cistifellea, arrivederci dotto biliare, ciao. Aveva un modo talmente educato e anacronistico di restare in silenzio e di impedirsi di piangere.
“Serve un ombrello sul capo con questa pioggia. Posso sedermi?”
Lui la fissò e quegli occhi parvero trapanarla da parte a parte.
“Credevo che fossi l’unico in città a importunare gli estranei” bisbigliò lui, sfatto.
“Mi chiamo Lilith, e non ho potuto non fermarmi. Sono un’impicciona, perdonami”
“Io mi chiamo Luxor, e a quanto pare sono irresistibile quando puzzo di alcol e sono sull’orlo del suicidio”
“L’espressione giusta è faccio pena, ma chiamala come vuoi, dopotutto sei tu quello depresso”
Non ci si rende conto fin da subito quando un istante cambia la tua vita. Quel giorno però le si spezzò l’epistrofeo, e ci volle un niente perché il respiro sfumasse e tutto diventasse buio.

Nessun commento:

Posta un commento