venerdì 11 giugno 2010

C 3




Bevevano come folli. Luxor le raccontava alla luce di quel locale pulcioso pieno di insegne e facce di Stanley Kubrick di come fosse difficile credere ancora. Quando tutto pareva sfumare in un punto interrogativo sfaccettato di nero. Lilith si domandava come si fosse alzato dal baratro, cosa l’avesse spinto a continuare a parlare, bere, mangiare. A non sciuparsi.
Non sarebbe stato utile a riportarla qui, bisbigliò francamente. Per un periodo non le disse di chi stesse parlando. Poi le spiegò della malattia, delle ore trascorse in corridoio.
Non hai idea di come facciano male le gambe quando resti in piedi per venti ore di fila a fissare la vita sciabordare via. Ma dopotutto cos’era il mio dolore al confronto del suo? Lei era trafitta dalle flebo, un tubo le permetteva di respirare, non aveva più capelli, le labbra screpolate, la pelle verdastra, era diventata un ammasso informe, deperita, distrutta, sfiancata. Ma era pur sempre lei.
La birra colava dal boccale, gli disegnava gocce sul collo, che si disfacevano, nuvole di lenzuola. Luxor non aveva idea di come quelle parole le facessero male. Non era una semplice pena, un dispiacere. Era malessere fisico, lui si liberava e lei tornata a casa si chinava in un angolo a piangere, strapparsi i capelli, perdersi nei silenzi e nei pensieri più cupi. L’empatia faceva male e non c’era modo di smetterla, era dipendenza, la dipendenza da un semisconosciuto che le parlava di amore e morte e le consigliava buoni libri e buona musica e buoni ansiolitici, semmai li avesse voluti, ma che rimaneva comunque un estraneo.
Si salutavano di fronte al castello, lei non diceva niente, gli sorrideva con aria malinconica, lui le bisbigliava qualcosa in un dialetto incomprensibile, e immancabilmente spariva nel cappotto scuro, i capelli al vento, la gamba leggermente fiacca con cui zoppicava a intervalli regolari.

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